Un lungo addio

by Lo zio Giorgio on 11 aprile 2010

Egli entrò nella casa disabitata.
Un tardo pomeriggio di tarda primavera, nella dolcezza dei campi, una casa colonica sperduta chissà dove nella bassa padana: il luogo dove aveva trascorso tutte le estati della sua infanzia.
Era passato davvero molto tempo dall’ultima volta che c’era stato, e girando la chiave nella toppa non aveva idea di cosa ci fosse all’interno. E misericordia, cosa mai lo aspettava lì dentro!
La casa era vuota, completamente vuota, gli ultimi che ci avevano vissuto avevano portato via tutto, quindi c’era solo un profumo come di fieno lieve ma inebriante e, nell’angolo della prima stanza, una cucina economica.
Il silenzio e il fresco si permeavano a tal punto che sembrava che i sensi atti a recepirli potessero esser scambiati, sentendo il fresco con le orecchie e il silenzio con la pelle.
Ma, mio Dio, i fantasmi. Fantasmi! Tutti i suoi fantasmi del passato, non fantasmi che spaventano, ma fantasmi che ti prendono la mano, ti abbracciano piangendo e ti fanno piangere e ti spezzano il cuore: sua nonna ai fornelli, una contadina a impastare uova, il canto lieve di sua madre giovanissima, il giallo polveroso del sole attraverso la finestra e un rumore di ghiaia sotto i piedi dei bambini.
Lui rimase senza fiato; chiuse gli occhi per cacciare le lacrime, li riaprì per cacciare tutti quei tristi, amatissimi fantasmi, e finalmente prese coscienza del fatto che la vita pian piano ci strappa via – con immani interessi – tutto quello che ci ha dato.
Poi, d’improvviso, si ricordò il motivo per cui era venuto fin lì, e subito provvide a squinternare in una pecorina urlante (direi da 8+) la giovinetta che si era portato a tal uopo.

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