L’uomo che non c’era

by Lo zio Giorgio on 6 settembre 2010

L’Uomo non ha ancora creato un’arte o un linguaggio in grado di descrivere almeno decentemente la capigliatura di un barbiere. Un barbiere con i capelli, ovviamente, un barbiere almeno cinquantenne anche se questo è ovvio, data la inspiegabile (uhm, inspiegabile?) mancanza di ricambio generazionale in questa professione.
In realtà il bulbo di una barbiere cinquantenne parla una lingua troppo difficile per essere parlata, canta una musica troppo complicata per essere depositata in SIAE, recita un melodramma troppo intenso per essere sceneggiato da essere umano: l’Amore, il dopobarba, un fritto in riviera, Fred Bongusto, una figlia che non capisce, 20 annate di playboy, la tristezza solidale e rassegnata condivisa con un paio di clienti abituali, e il ricordo di quell’anno, quel terribile anno che ha ancora la faccia di lei, il famoso anno del cuore spezzato.

Io non vado mai dal barbiere, perchè mi rado il capoccione con la macchinetta e la faccia l’ho sempre tenuta rasata, ma quest’estate ho tentato – per la seconda volta a dire il vero – un baffetto sbarazzino (che a vedersi, devo proprio dire, fa dissolvere in una patetica nuvoletta di inadeguatezza semantica l’espressione “faccia da cazzo“).
Allora entro per la manutenzione del baffo e mi siedo, mi rilasso pensando a quel film dei fratelli Coen e lascio fare al barbiere il suo lavoro. Poi mi cade l’occhio, vedo questa sua capigliatura, e improvvisamente, invaso violentato sopraffatto squinternato dalle suggestioni di cui sopra (è noto che sono un tizio facilmente emozionabile), scaglio via la bacinella col pennello, mi alzo precipitosamente, e con il telo da barbiere ancora addosso, piangendo sguaiatemente senza neanche prendermi la briga di coprirmi la faccia con le mani, esco di corsa da “Il Salone di Learco & Iames”.

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